Vorrei poter fare di più.

Agosto 2022: il mese in cui ho iniziato la mia adozione a distanza.

Dopo un peregrinare di circa 3 mesi alla ricerca della giusta associazione, ho deciso di dare il via a questa mia decisione, diventando genitore a distanza di Josephat, un bimbo di circa (all’epoca) otto anni, appartenente alla fiera tribù dei Maasai, che vive proprio in mezzo alla Savana, al confine fra Kenya (il suo paese) e la Tanzania, nella regione del Kilimanjaro.

E’ la scelta più intelligente, matura e migliore che abbia mai preso. Sapere che sto aiutando un bambino a crescere in salute, con più opportunità a propria disposizione (scolastiche e alimentari in primo luogo) dà già di per sé un senso al tutto.

Lo penso ogni giorno. Gli scrivo spesso delle letterine, ricordandogli quanto, a distanza di migliaia di km, è pensato e voluto bene.

Da quando ho deciso di adottare a distanza, sono cambiato e cresciuto emotivamente moltissimo. E più passa il tempo più sono convinto di voler fare sempre di più. Perché l’aiuto e l’amore incondizionati che si possono offrire agli altri, a coloro che non hanno la nostra stessa fortunata vita da occidentali, non sono mai abbastanza. Si può — si deve — sempre fare un passo ulteriore.

Io sono nato in una famiglia che, bene o male, non mi ha mai fatto mancare nulla. Ho un tetto sopra la testa che non sia fatto di lamiera. Ho dei muri che mi riparano dal mondo esterno che non siano fatti di sterco e paglia. Mangio tre, quattro, se non più volte al giorno. Tutte le volte che ho voglia. Ho l’opportunità di leggere tutto quello che desidero. Ho l’opportunità di visitare le città d’arte che amo, viaggiare, conoscere nuove persone, di avere a disposizione una sanità relativamente efficace e che funziona per ogni mio problema fisico.

Tutte cose che è facile dare per scontate. Talmente scontate che, spesso, ce ne lamentiamo anche. Abbiamo talmente tanto — abbiamo tutto — che rischiamo di arrivare al punto di non farci andare bene la benedizione nella quale abbiamo avuto la fortuna di nascere e crescere.

Cose che, però, Josephat, la sua famiglia, i suoi fratelli, le sue sorelle e tutti coloro che vivono nella savana (o, per esempio, in una baraccopoli di Nairobi) non possiedono. Per loro un pasto al giorno può essere già tanto. Per loro le cure mediche più basilari possono significare la sopravvivenza. Per loro un quaderno e una penna per poter studiare rappresentano un regalo prezioso.

Cosa mi ha insegnato in questo anno adottato a distanza Josephat? Il significato di dignità. Un bambino che vive nella più assoluta povertà e che, mi scrive, è «molto felice» e mi «promette di impegnarsi duramente a scuola». Ripeto: dignità.

Ditelo ai figli del mondo occidentale. Che hanno tutto, pensano di non avere niente, e non si lamentano mai abbastanza. Raccontategli di Josephat.

Facciamo adesso un passo avanti.

Da qualche mese sto facendo uno stage nella biblioteca del mio paese, e tra i vari lavori come ricoprire e riordinare libri, ho imparato anche a conoscere brevemente un gruppetto di bambini che, nel reparto per l’infanzia, scoprono il mondo con i libri a loro dedicati.

Proprio la settimana scorsa un bambino, di circa 5 anni, di origine africana, mi si avvicina e mi chiede, porgendomi un libro che aveva in mano: «Questo dove va?» Il suo tono di voce era dolcissimo, giusto un po’ timido e riservato.

«Dai pure a me» gli dico, sorridendogli.

«Grazie» mi dice lui, sempre dolce e timido. Mi accenna un vago sorriso, mi porge il libro, e se ne va.

Quello è stato un momento estremamente gratificante per me. Ho rivisto in lui un po’ il “mio” Josephat, ma soprattutto mi ha ricordato una cosa che in questi mesi ho avuto modo di constatare spesso: i bambini africani, o di origine mediorientale, sono tendenzialmente molto più educati dei loro coetanei italiani.

Un’altra volta ancora, recentemente, mentre stavo riordinando alcuni libri per l’infanzia, un bambino di circa otto anni, di origine africana, che stava facendo i compiti, mi guarda per qualche istante molto incuriosito, e mi dice con voce limpida, vivace: «Ciao!»

Dopo averlo salutato a mia volta, gli chiedo quali materie gli piace studiare. Mi dice che non gli piace molto la geografia, ma va molto forte con la matematica (!).

Ora: potete dirmi che istantanee di questo tipo possono succedere sempre, con chiunque, bianco o nero che sia. Forse. Ma dalla mia esperienza personale ho potuto constatare come i bambini di origine africana, o comunque straniera, possiedono una dolcezza e un’armonia insita in loro, che nei coetanei italiani io non ho mai trovato.

In biblioteca cerco sempre di salutare e far sentire accolti tutti quanti, italiani e non. Tuttavia ho “un occhio di riguardo” per i bambini stranieri (stranieri, sì, perché ben poco fa, lo stato italiano, per farli sentire parte della nostra, collettiva società). Li saluto sempre con un gran sorriso, anche quando loro mi guardano un po’ silenziosi e magari timorosi di parlarmi. Li voglio far sentire accolti, a casa, partecipanti attivi della società nella quale tutti non viviamo. Perché questa biblioteca, questo paese che è l’Italia, appartiene a me, a noi, tanto quanto a loro.

Cerco di fare lo stesso anche con i loro genitori, spesso le mamme, anche se ho avuto modo di notare che generalmente tengono lo sguardo abbassato, quasi come se sentissero di non essere del tutto gradite o ben volute (a causa di politiche nazionali che lavorano più sulla disgregazione che sull’inclusione), o che comunque sentano quel momento di gioco e spensieratezza in biblioteca con i propri figli come un privilegio a loro concesso, piuttosto che un diritto, come dovrebbe sempre essere.

Voglio fare del mio meglio, tutto ciò che mi è possibile, per ricordargli che l’Italia è un paese migliore grazie a loro. Noi siamo cittadini migliori grazie a loro. Perché, come disse il gigante Nelson Mandela dopo essere stato scarcerato: «Sogno una nazione arcobaleno in pace con se stessa e con il mondo».

Vorrei poter fare di più. C’è sempre un passettino in più, per quanto all’apparenza minuscolo e insignificante, che possiamo fare affinché ci sia più inclusione, amore e dialogo fra i popoli; affinché la mia fortuna di essere nato in Occidente, vada anche a chi ha avuto la sfortuna di nascere nella povertà della Savana, dove però, forse, c’è anche più ricchezza di valori umani.

Vorrei poter fare di più. Perché nel momento esatto in cui mi sono reso conto di essere nato fortunato — bianco e occidentale in primo luogo — ho ritenuto il dover agire un imperativo morale.

Se ti interessa, ho pubblicato un pamphlet autobiografico intitolato Persone Felici, dove l’argomento principale da me trattato si può racchiudere nella frase: “Cosa può insegnarci, l’Africa, sul concetto di felicità?”

Puoi seguirmi, se ti va, anche sulla mia pagina Facebook.

Per chi fosse interessato, l’associazione con la quale ho adottato a distanza è Alice for Children.

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