Vedere il mondo con gli occhi di un apolide palestinese

Apolide”: persona emigrata all’estero, che non ha alcuna cittadinanza, perché priva di quella di origine e non in possesso di un’altra, spesso per ragioni di guerra.

I palestinesi, pur facendo orgogliosamente parte dei Territori palestinesi, sui quali lo stato di Israele ha costruito in più di mezzo secolo le proprie città e colonie, potremmo definirli come dei “nuovi apolidi”, gli apolidi del 21esimo secolo.

Essi, molto spesso – quasi sempre – non possono muoversi, ad esempio, da Gaza alla Cisgiordania, o dai Territori verso Gerusalemme, o da tutti questi luoghi verso altre nazioni, come la Giordania o l’Egitto – per motivi di salute, studio o, semplicemente, vacanza – per mancanza di un passaporto che non viene loro concesso. E quando ciò avviene – spesso dopo infinite e sfiancanti richieste, nel corso anche di anni, se non perfino decenni – Israele nega comunque loro ogni possibilità di movimento, rendendo così la vita in Palestina come in un non-luogo, senza diritti basici garantiti.

Tecnicamente i palestinesi non sono apolidi, ma la loro condizione molto gli assomiglia. Ed è per questo che ho voluto scrivere questo poemetto, che non ha lo scopo di accusare Israele o difendere, all’opposto, alcunché. È stato, più semplicemente, un esercizio di grande sforzo emotivo e di immedesimazione nel dolore e nella sofferenza e nella mancanza di diritti altrui.

Spero apprezzerete il mio lavoro.

Gli israeliani vivono immersi / e soffocati nella sindrome della Shoah. / L’oppressione come forma di riscatto / l’annientamento propugnato dallo stato / per non farsi annientare ancora. / Mano per mano / cuore per cuore / delitto per delitto. / Gli israeliani vivono nel continuo sussulto / di un cuore amareggiato rancoroso d’invalicabile astio / nei confronti del dolore subìto. / E’ forse per questo che chiedono terra e ancora terra / rivendicando diritti sull’apolidia di un altro popolo / che a loro volta hanno imparato a sottomettere?

Lo stesso sussulto di paura e timore reverenziale / che sveglia il sonnolento Occidente ogni volta che / sente nominare la parola innominabile: ebreo. / Ma i palestinesi vivono sprofondati in una sindrome / di sussistenza pardon lotta per la sopravvivenza / oltre i limiti del Diritto umano: / quella dell’uomo che non ha uno stato / quindi una casa / dunque una propria intima possessione / a lui esclusiva e che a lui non venga esclusa.

Il palestinese è oggi l’apolide per eccellenza / più del migrante che respira acqua / annegando nel Mediterraneo. / Il palestinese respira bombe al fosforo / che illuminano il nero mare di Gaza / della luce di dio pardon di chi gioca al potere divino: / tu devi morire affinché io viva. / L’israeliano vive nel timore di essere sterminato / quindi stermina a sua volta un popolo / che le leggi sulle tavole di dio hanno definito «nemico». / Mano per mano / cuore per cuore / delitto per delitto. / Chi ha commesso lo sterminio peggiore /se tutte le mani sono sporche di sangue umano?

Il palestinese è l’apolide che non viene sterminato / da una camera a gas o / da una fucilata alla nuca. / No: il palestinese  / come il fratello ebreo rastrellato dal ghetto di Varsavia / è un reietto / e come un reietto deve morire: / sotto il fuoco liquido di una bomba / che dopo avergli tolto la casa / compie il suo ultimo atto teatrale / togliendogli anche la vita.

L’apolide è colui che vive in una casa / senza il diritto di decidere / dove mettere un mobile / un divano o se annaffiare una pianta / concimata con la cenere dell’uomo / morto sotto le macerie di Gaza. / L’apolide non è altro che cenere che respira / ma ancora per poco.

L’apolide inquina e turba / l’irrequietezza di colui che legge / la bibbia la torah il corano / di colui che prega dio / mentre si asciuga un’ultima lacrima / prima di far deflagrare una bomba / che ne ucciderà cinquanta. / Che dio sia lodato / mentre all’inferno io ti condanno. / Non alla selva oscura di fiumi di lava / ma del corpo ritrovato carbonizzato / sotto le macerie del campo profughi di Jabalia. / A quell’uomo più non importa / di proseguire sulla strada del fuoco / a lui è bastato prima di morire / veder esplodere suo figlio / in squame membra e fluidi corporei.

L’apolide è colui che non fa in tempo / a mettere un bicchiere in tavola / quando lo stato supremo / che cancella il sacro vincolo del Diritto – / l’unica sacralità dello stato – / gli dice: “Ci dispiace, i tuoi soldi non bastano / per pagare il nostro affitto”. / E quindi vattene ovunque / purché non qui. / In un campo profughi che per evitare / l’inseminazione e la proliferazione del terrorismo – / pardon del terrore di vedersi morire in qualunque istante – / bombarderemo con la stessa ferocia / con la stessa bestialità / con la stessa suprema militare organizzazione / con cui i nazisti ci sterminarono.

Apolide è / oppressione emotiva sociale psicologica / e territoriale. / Non c’è passaporto che dia loro la libertà / quindi come cani randagi / essi vivono senza identità. / Le loro scarpe sono bucate dai sassi della terra / ma laddove l’apolide pensa di non avere / un luogo in cui andare, un vagabondare senza meta – / come un tempo l’ebreo israeliano si è dimenticato d’essere stato – / ogni striscia di terra e asfalto / è l’altare della libertà sul quale esso / da un momento all’altro si può immolare.

Un apolide è un uomo senza patria / quindi appartiene a tutte le patrie / senza possedere il passaporto di nessuna.

Io chiedo al mondo – / alle risoluzioni Onu che hanno il suono / delle parole sputate al vento da una montagna; / al finto richiamo di una pace / su un pianeta straripante di guerre – di guardare l’apolide che ha a fianco / e chiedergli: «quanto fa male, oggi?»

L’ascolto prima della parola / l’abbraccio invece del pugno in volto / il sorriso piuttosto che gli occhi al cielo / amando il diverso per amare / il diverso che in un’epoca lontana / è vissuto in noi. / L’ebreo della diaspora non è poi così diverso / dal palestinese della Nakba.

E mentre il mondo chiede una tregua / come se ventimila corpi martoriati / fra le fertili terre di Gaza e Cisgiordania / concimate con i corpi senza vita dei palestinesi / offerti all’altare del martirio / non valessero niente / di fronte alla benevola capacità dell’uomo / di negoziare, io mi domando se / l’uomo imparerà a negoziare / senza una goccia di sangue da versare.

Tutti i diritti riservati, Tiziano Brignoli ©2024

Foto di Raimond Klavins su Unsplash

Un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.