La buona psicoterapia è un’utero materno
Ho iniziato un percorso terapeutico a novembre 2021, dopo che per i mesi precedenti ho vissuto uno dei più devastanti tracolli emotivi e psicologici della mia vita. Ho sofferto talmente tanto da rendermi conto che, da solo, non ce l’avrei più fatta a risollevarmi e a vincere il mio dolore.
Questo saggio l’ho scritto il 20 marzo 2023, dopo circa un anno e mezzo di dialogo con la mia psicologa. Scelgo di pubblicarlo oggi sul blog, esattamente un anno dopo la prima stesura di questo testo. Buona lettura.
Sigmund Freud, padre della teoria psicanalitica, affermò che il ruolo dell’educatore (ossia del terapeuta) è perfino superiore a quello del medico. Lo psichiatra, infatti, lavora su «formazioni psichiche già cristallizzate», a differenza dell’educatore che lavora su un «materiale plastico». Ruolo del terapeuta, dunque, è stimolare il paziente, sollecitandone il cambiamento ma, attenzione, non «secondo i suoi ideali personali» – grande errore sarebbe – bensì «secondo le disposizioni e le possibilità proprie del soggetto».
E’ importante partire da qui per spiegare ciò che voglio affermare con questo testo, indipendentemente dal proprio approccio terapeutico.
Lo stereotipo più grande e ampiamente diffuso attorno alla psicoterapia e agli psicologi è: ci vogliono tutti uguali. Tutti formati con lo stampino. Insomma, uomini e donne senza una reale e ben distinta personalità. L’ho sentito infinite volte, e numerose altre l’ho pensato io stesso. Ma solo prima, però, di iniziare un percorso di psicoterapia, e riconoscere quanto questa affermazione sia bugiarda, detta da chi, o la psicoterapia non la fa, o ne ha ricavato, sfortunatamente, una brutta esperienza. Si preferisce dire quanto sopra piuttosto che riconoscere l’importante – e spesso fondamentale, come nel mio caso – lavoro sociale, emotivo e psichico che un bravo psicologo riesce a svolgere su un paziente che si approccia alla terapia con disponibilità alla scoperta e al cambiamento di sé.
Gli psicologi non ci vogliono tutti uguali. Ci vogliono felici. Qualunque forma di felicità chiediamo a noi stessi. Non sono lì per costruire la nostra personalità, ma piuttosto per tirarne fuori le potenzialità inespresse, o che abbiamo sempre avuto paura a mostrare. Il loro compito non è dare consigli – spetta a noi, e a noi soltanto, decidere come vivere la nostra vita. Il loro ruolo è accogliere e soprattutto legittimare ciò che proviamo, cosa sentiamo, le nostre paure e i nostri sogni. Dialogano con noi. Si confrontano con noi. Entrano dentro di noi. E lo fanno con i tempi e i modi che, a noi, risultano più congeniali.
Non sono nostri amici – anche se talvolta lo vorremmo – (come dice lo psichiatra Paolo Milone: «se tu non fossi tu, se io non fossi io»…) – ma possono diventare i nostri migliori confidenti. In loro possiamo trovare un porto sicuro, una protezione dalla tempesta che incombe.
E in tutto ciò, studiano e lavorano per raggiungere, faticosamente, questo obiettivo. Non per noi. Non solo quanto meno. Ma con noi. Ed è in quella condivisione e in quel confronto continuo con noi, e con loro che, tempo al tempo, troveremo la fonte della nostra felicità.
Una premessa fondamentale: la psicoterapia è faticosa. Se fatta bene, è uno sforzo cognitivo immenso. Non mancano le lacrime, il sentirsi disorientati tanto quanto, però, meravigliati, ma anche la paura del cambiamento tanto quanto la voglia di cambiare, le continue e inesorabili domande se si stia realmente percorrendo il giusto percorso. Ed è normale che sia così. La psicoterapia è, innanzitutto, una conversazione interiore con sé stessi, attraverso gli stimoli e gli input che il nostro terapeuta ci offre.
Per me fare psicoterapia significa uscire dalle sedute con una rinnovata e frusciante voglia di vivere. Ma anche ragionare e rielaborare ciò che mi ha detto la psicologa per i successivi dieci giorni o giù di lì. Significa far funzionare e lavorare il mio cervello più di quanto faccia in quasi ogni altra circostanza, ad eccezione forse della scrittura dei miei libri.
Non esiste psicoterapia di reale successo che non sia anche molto impegnativa e molto dolorosa. Non c’è via di scampo. Il dolore è la fonte battesimale dell’amore.
Affrontare un percorso di questo tipo vuol dire innanzitutto mettersi in gioco. Comprendere che c’è un problema e avere il desiderio di risolverlo o, quanto meno, di andare alla radice dello stesso. Scomporlo, farlo a pezzettini piccoli piccoli, comprensibili, quindi capire cose che dapprima la nostra mente negava o si rifiutava di vedere e, possibilmente, da lì ricostruire la propria vita in modo più costruttivo e salutare.
Ma non è facile. Non lo è mai. Neanche per un dannatissimo istante. Tutte le cose belle – come la ricerca e la scoperta di sé – si ottengono con il sacrificio e la pazienza, non di certo con l’agio. Se pensate di vivere questo viaggio con leggerezza, ve lo dico chiaramente: è tempo buttato – per voi tanto quanto per il vostro terapeuta. O siete disposti a navigare al buio e in acque tempestose – ben sapendo che non sarete mai da soli in tutto ciò – oppure, dal mio punto di vista, è meglio evitare. Scusate la brutalità.
E poi ci deve essere la fiducia. Se non riponiamo fiducia in lui o lei, saremo molto più resistenti al cambiamento. La fiducia è una componente fondamentale, che non sempre scatta, o magari non subito, lo comprendo bene, ma senza di essa la terapia rischia di non avere un effetto così efficace. Ma, quando succede, ci si sente protetti, e si ottiene la consapevolezza di poterle dire qualunque cosa. Siamo sicuri di poter fare lo stesso, ad esempio, con un amico, per quanto caro?
No. Perché, come detto, la psicologa non è nostra amica. E non è lì per esserlo. Prima lo capiamo prima faremo un altro passetto avanti. E’ lì per ascoltarci, per guidarci nel buio, tenendoci (virtualmente) la mano, per legittimare il nostro dolore tanto quanto le nostre speranze e i nostri bisogni.
Per questo è importante dire: se ne avete la possibilità, prendetevi il vostro tempo, andate avanti per piccoli passetti, un piede davanti all’altro, lentamente. Non pretendete troppo da voi stessi, specialmente all’inizio. E non potete immaginare quanta fatica mi costi dire questo anche a me stesso.
Mi ritengo fortunato. Della mia psicologa mi sono fidato fin dal primo giorno; ho deciso di mettermi nelle sue mani, ed è stata la decisione migliore che abbia mai preso. Come lei mi ha detto: «La sua Tiziano, arrivati a questo punto, è una battaglia per la sopravvivenza». Parole severe, ma giuste. Ero talmente sopraffatto dai pianti, da quel fastidiosissimo male di vivere, dall’inquietudine della mia mente, dall’irrequietezza dei miei pensieri senza riposo, dall’idea sempre più opprimente di non poter appartenere a questo mondo, che capii di avere bisogno di aiuto (farmacologico e psicologico), e che senza quell’aiuto io non ce l’avrei più fatta da solo. Sarei stato destinato a uccidermi, o a morire lentamente, senza mai aver vissuto veramente.
E’ stata una decisione facile? No. E’ anche stata una decisione giusta e coraggiosa.
Mi sono fidato perché lei innanzitutto ha saputo conquistarsi la mia fiducia. Attraverso le sue parole, con il suo tono di voce, la sua indissolubile e assoluta sincerità, con i suoi suggerimenti mai intrusivi, con la sua pazienza, con il suo ascolto, con il suo darmi tutto il tempo di cui necessito ma stimolandomi a cambiare un po’ di più un giorno dopo l’altro, sempre e rigorosamente senza fretta, ricordandomi di accogliere nella mia vita anche quelle “piccole” vittorie quotidiane, che poi tanto piccole non sono.
Da parte sua, un anno e mezzo dopo, mi sento protetto. La psicoterapia, per me, non è più ormai solo «un luogo sicuro», ma un posto che dà totale sicurezza ai miei pensieri, legittimando le mie emozioni.
Quando capitano i giorni negativi (sempre più raramente), in cui i miei pensieri frullano velocemente e mi tolgono serenità, io penso che dopo qualche giorno avrò una nuova seduta e basta questo per tranquillizzarmi. Da questa consapevolezza io mi sento tutelato. Se io non ce la faccio, se la mia mente cede, so che lei c’è, e che riesce a riequilibrare i miei stati d’animo. Quando mi sento una persona inutile, o un fallimento di essere umano, lei riconosce il fatto che io sono abbastanza. Che io valgo. Che io merito di essere felice, e di provare ad esserlo.
E se, come detto, la psicologa non è, né sarà mai, mia amica, è altresì vero che la psicoterapia è il migliore, il più intenso ed entusiasmante lavoro di squadra. Senza dimenticare mai che la buona psicoterapia deriva non solo dal dialogo e dal confronto continuo, ma dall’assimilazione del paziente delle parole del terapeuta. All’inizio uscirete dalle sedute senza che nulla, nella vostra quotidianità, cambi – senza che voi siate in grado di cambiarlo. Ma poi un bel giorno, dopo molto tempo, e dopo molta fatica, vi renderete conto che quelle sue parole, quei suoi sguardi, quel meraviglioso dialogo con lei o lui, che infine diventerà un ancor più meraviglioso dialogo con voi stessi, sarà, o starà diventando, parte delle vostre azioni, delle vostre parole, dei vostri pensieri, senza che nemmeno ve ne accorgiate. Ed è questo il punto di rottura, o se preferite il punto di svolta, di congiunzione, di ogni psicoterapia di successo.
Può capitare, nel corso delle sedute, di avere la sensazione di non fare progressi. Si parla, magari si piange, si scava un pochetto sempre più in profondità, si rimugina, si cerca di capire, può succedere che ci si senta «conflittuali» circa un determinato argomento o emozione. E’ normalissimo. Roma non è stata costruita in un giorno. La psicoterapia è, appunto, assimilazione. Si lavora in seduta, ma ciò che si discute, si analizza e si impara lì dentro, poi, va applicato nella vita al di fuori, e per questo ci vuole tempo. La fretta è la nemica numero uno del benessere. Bisogna dare il tempo alla propria mente di cambiare, di destrutturare la rigidità emotiva o psicologica che per anni si è insinuata nei nostri pensieri e comportamenti, opprimendo e condizionando negativamente il nostro percorso.
Non ho motivo di vergognarmi nell’affermare che la psicoterapia – assieme ai giusti farmaci e al loro giusto dosaggio – mi stanno salvando la vita. In senso letterale. Prima volevo morire (ossia la morte come liberazione). La terapia mi sta invece insegnando a provare la gratitudine, a capire e a vergognarmi molto meno della parola amore, ma soprattutto mi sta insegnando che io sono qui, in questo mondo, e che la felicità, con un po’ di sforzo e con un po’ di aiuto, è anche alla mia portata.
La psicoterapia sta dando per la prima volta candore alla mia mente.
Mi piace questa parola – candore – perché definisce perfettamente il funzionamento della mia mente dopo un anno e mezzo di terapia. Si sta diradando la nebbia e i miei pensieri stanno diventando più limpidi. La mia mente è molto più capace di selezionare in modo autonomo, maturo e consapevole ciò che mi fa bene da ciò che invece mi procura malessere e devo imparare a lasciare andare.
Permettetemi questa metafora: la psicoterapia, nella sua forma migliore, la potremmo quasi definire come un utero materno; ma attenzione: non un luogo buio, bensì protetto e avvolto da una luce bianca ed eterea – come la luce di Dio, la luce della consapevolezza -, che si fa gradualmente spazio nella mente del paziente, aiutandolo a disperdere quei pensieri inquinati che per troppo tempo hanno avuto il comando.
Almeno è così che io la percepisco.
Per me fare psicoterapia è stato fin dal primo giorno un impegno estremamente faticoso. Faticoso, sì, ma al quale non ho pensato neanche per un singolo giorno di rinunciare. Io entro in quello studio, ogni singola volta, con una profonda e assoluta volontà e disposizione mentale di provare ad arrivare alla radice di ciò che, durante la quotidianità, mi toglie serenità.
Qualche mese fa la mia psicologa mi ha detto: «Io Tiziano vedo quanto per lei sia faticoso pensare, avere questa mente che non si riposa mai un attimo».
Pointed, direbbero in inglese.
Ed è una delle tante ragioni per cui la mia stima e fiducia nei suoi confronti sono assolute: riesce a tirare fuori argomentazioni su di me anche quando io fatico a riconoscerle come reali. Perché lei sta liberando e dando ali alla mia voce, quando fino a un anno e mezzo fa era sottomessa dal rancore, dall’odio, dalla paura.
La buona psicoterapia rappresenta la disponibilità ad accettare la propria imperfettibilità, sapendosi comunque amati e sapendosi comunque capaci di amare. E’ avere il coraggio di guardarsi dentro senza filtri e domandarsi: cosa posso fare io – e non gli altri – per stare meglio?
La buona psicoterapia può partire (ed è probabile che sia così) – tale infatti è stato il mio caso e in parte continua a esserlo – come un’accusa al prossimo (ad esempio, i propri genitori) ma deve poi trovare la strada dell’interiorità, della ricostruzione di sé stessi, di quell’imbuto, che diventa serbatoio, che infine diventa motore di tutta l’energia e del desiderio vitale dell’uomo, attraverso un dialogo e un confronto continuo con il proprio terapeuta.
Siamo una squadra meravigliosa, io e i miei medici, e grazie a loro – esclusivamente grazie a loro – io oggi mi sento al sicuro. Recentemente la psicologa mi ha detto: «Arrivati a questo punto io non le permetterò di tornare indietro». Capite? Lei non me lo permetterà. Credo sia una delle cose più belle che un essere umano mi abbia mai detto. Parole dalle quali, appunto, io mi sento protetto. E’ per questo che la mia fiducia in lei, oggi, è assoluta, totale, indissolubile. Nessuno la potrà mai mettere in discussione.
Ma in questo lungo anno e mezzo di formazione emotiva, cosa mi ha insegnato a fare la psicoterapia? Innanzitutto ad amarmi. A cogliere il fiore che nasce dal mio seme.
Non ho una ragazza. Non ho mai avuto una ragazza. Compiuti i 30 anni, questa la sento come una mancanza che a volte produce in me una violenta sindrome di inferiorità sociale. Ed è così che, ogni volta che vedo una ragazza, ormai donna, penso: né lei né altre come lei, potranno mai amarmi. Ma per questo non mi devo volere bene? Poiché non ho una ragazza non devo «gratificare me stesso» – tali sono state le parole della mia terapeuta? Ovvio che no. Io ho il diritto di vivere, di «sperimentare», di scoprire, di amare, di evolvere, di cambiare, di viaggiare, di mangiare un gelato al parco, di fare un giro in centro città, di mangiare una pizza al ristorante, anche se sono da solo. Anzi, soprattutto se sono da solo. Infatti, poiché non ho ancora nessuno al mio fianco, io ho il dovere emotivo di occuparmi di me stesso. Questo mi ha insegnato la psicoterapia, sapendo anche che, uscendo di casa e dalla mia comfort zone, non solo provo maggiore gioia e senso di appartenenza a questo mondo, ma le opportunità di conoscenza, ovviamente, si amplificano a dismisura.
La psicoterapia mi ha anche insegnato a conoscere i miei difetti, e a riconoscere che, indipendentemente da quanto faticosi siano, io non sono loro. Mi sta insegnando a perdonare, e di conseguenza a capire che il perdono è, in primo luogo, una forma di liberazione (il perdono, e non il suicidio. Anche se, non posso negare, la mia mente di tanto in tanto torna verso quel precipizio emotivo che tanto ci fa paura). Ma più di tutto credo che mi stia insegnando a non vergognarmi di me stesso, ricostruendo faticosamente la mia bassissima autostima.
Il percorso è ancora lungo, nessun dubbio su questo. C’è così tanto che vorrei ancora discutere con lei – confrontarmi con lei, crescendo grazie a quel confronto, come è stato fin dal primo giorno – ma solo oggi sento di poterlo affrontare con la sicurezza legata al fatto di sentire che la nudità dei miei sentimenti e pensieri è compresa da qualcuno, e mai giudicata.
Il successo più grande come esseri umani non è la ricchezza né il potere. Non è di certo un bel cellulare o una bella macchina e nemmeno una bella casa. Il successo più grande è riuscire a prendere coscienza di sé. E’ il sapersi guardare dentro con sincerità e rendersi conto che non si è più la stessa persona che un tempo si è stati. Non è questa una cosa bellissima? E’ il saper riconoscere che molto faticosamente il passato si sfuma, diluendosi nel presente, spingendoci inesorabilmente ma con gioia nel futuro.
Lunedì 20 marzo 2023, ore 9.36
Tiziano Brignoli
(Se vuoi scrivermi su questo argomento, la mia e-mail è: tizbrignoli1992@gmail.com).