Il richiamo alla preghiera del muezzin: cosa ho provato?

Ore 16.48 del mio primo giorno a Tangeri. Pochi istanti prima mi trovavo in un cafè storico della Medina intento a sorseggiare del bollente e dolcissimo tè alla menta e a prendere appunti sull’esperienza che stavo vivendo in quelle prime ore in città. Poi mi ricordai: da lì a pochi minuti ci sarebbe stato il richiamo alla preghiera del muezzin, momento nel quale i fedeli musulmani si inginocchiano verso la città sacra della Mecca e pregano, diverse volte al giorno.

Volevo ascoltare quel richiamo, da molti definito mistico. Era una delle ragioni per le quali decisi di viaggiare in un paese islamico. Così pagai velocemente, uscii dal bar, e corsi verso una zona relativamente aperta della Kasbah (la zona più alta e fortificata) dove avrei potuto ascoltare meglio il richiamo alla preghiera, quando ancora non potevo immaginarmi il grande impatto emotivo che avrebbe avuto sulla mia mente e sul mio corpo.

Guardai l’orologio. Mancavano pochi secondi. Il mio cuore batteva forte. Le mie mani sudavano e palpitavano. La mia curiosità cresceva a dismisura di secondo in secondo. Poi sentii come dei cori. Non capii immediatamente cosa stesse succedendo. Ero disorientato e in ansia. Era come se tante vibrazioni sonore, provenienti da più parti della città, si scontrassero, producendo come un terremoto energetico che scuoteva le fondamenta dell’anima in ascolto. C’era quindi elettricità nell’aria. Avevo i brividi. Ma cosa stava esattamente succedendo? Poi capii: erano le varie moschee (le tantissime di Tangeri) che si “chiamavano” a vicenda, prima di iniziare il vero e proprio culto, ossia il tradizionale “annuncio” religioso alle parole di “Allahu Akbar” (Dio è grande). Ed eccolo lì ciò che attendevo. Tutto si fermò. Tutto divenne più ovattato. I suoni all’infuori del richiamo vennero annullati. L’uomo si stava donando a Dio.

Non sono musulmano, quindi quelle parole, quei suoni, non avrebbero dovuto parlarmi né tanto meno indurmi a provare emozioni particolari, se non una sincera e atipica curiosità legata all’esotico che si può incontrare viaggiando. Nulla più di questo. Tuttavia non posso negare che quello che provai in quegli istanti fu, nel modo in cui lo descrissi pochi giorni dopo alla mia psicologa, come se io fossi stato «innalzato a Dio». Non c’è stato un momento, nella mia vita da trentenne rigorosamente non religioso, prima di quel giorno, in cui mi sia sentito più in connessione con il me stesso spirituale, con la mia anima che divenne e si completò con l’anima, se così vogliamo definirla, dell’Unità dell’Universo. In quel momento, ovviamente, non stavo pregando – anzi, stavo filmando il panorama registrando le parole del muezzin -, ma per quei brevissimi secondi dovetti trattenermi dall’impulso di piangere, di genuflettermi, di abbracciare il mio corpo e poi aprire le braccia e abbracciare tutto ciò che stava nella vacuità del mondo. Non potevo definirmi musulmano, questo no; ma in sintonia con la mia divinità interiore, e forse perfino con la religione islamica – questo sì. I brividi che provavo mi scuotevano dall’emozione. Ero eccitato in una fusione con l’aria e il cielo che, pur della durata di pochi istanti soltanto, definì la mia presenza in città come poche altre cose. Ascoltare l’uomo che si abbassa, si annulla e si dona al divino mi fece sentire grato di esistere.

In quel momento pensai che, se l’uomo può arrivare a essere devoto in tale misura, Dio – o se preferite, più “laicamente”, una forma divina nel cui ventre tutti noi un giorno torneremo – deve per forza esistere.

Il modo in cui tutto ciò avviene è attraverso quello che non si può definire altrimenti se non con un “lamento”. Non aspettatevi di sentire un ritmico e vivace coro gospel afroamericano; non aspettatevi nemmeno di sentire quei canti clericali intonati da vecchie signore ben vestite in chiesa la domenica. Il muezzin induce, attraverso la sua lamentazione, il fedele verso Dio. Lo spinge in alto e, al contempo, all’interno del suo Io più primigenio. Induce il fedele al suo annullamento corporeo e spirituale attraverso e in Dio. E’ un “canto” struggente, lacrimevole, dolente nella sua cadenza. E’ un “canto” di sofferenza, ma è in quel dolore religioso che tutto prende forma e significato.

E’, in conclusione, un’esperienza di ascesi. Se non mistica, quanto meno spirituale. Se non spirituale, certamente emotiva. Se nemmeno emotiva, di sicuro di scoperta e comprensione umana. Perché, in fondo, non c’è bisogno di pregare Dio cinque volte al giorno per essere in grado di sentire Dio dentro di sé.

Tutti i diritti riservati, ©Tiziano Brignoli 2024

Se ti interessa, puoi leggere anche questa poesia in prosa che ho scritto sulla città di Tangeri.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.