Essay,  Mental Health

Nudo sul palcoscenico: contro lo stigma delle malattie mentali

Dopo avervi parlato della mia storia in breve, in riferimento alla convivenza con la malattia mentale e un ricovero psichiatrico, in questo articolo mi concentro su due aspetti che ritengo egualmente fondamentali. Il supporto e l’aiuto, non solo medico, ma anche da parte della famiglia e degli amici nei confronti di chi soffre mentalmente, e l’importanza di combattere lo stigma (vedi anche: ignoranza su un tema che non si conosce mai abbastanza). Spero che le parole di seguito possano aiutarvi a conoscere meglio la situazione di chi ha un demone nella propria mente, della sofferenza estrema che può causare, e del perché parlarne, e parlarne ancora, sempre di più, sia fondamentale per curare un problema che non è solo personale e psicologico, ma anche sociale e di tutti noi, in quanto parte di una collettività. Buona lettura.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, sarebbero poco meno di un miliardo le persone che soffrono di disturbi mentali, i quali possono spaziare dall’ansia alla depressione fino alla schizofrenia. Sempre secondo l’Oms, la prima causa di morte fra i giovani è da ricondurre al suicidio. Dunque, una persona su otto nel mondo, convive con una disabilità mentale.

Se non sempre da questo tipo di malattie si può guarire (e quando ciò avviene, possono volerci anni, se non decenni, con ricoveri ospedalieri e terapie farmacologiche) ci può sicuramente essere una remissione dei sintomi (specialmente quando vi è una interazione e fiducia costante fra medico curante e paziente). Di sicuro, si può imparare a conviverci, riuscendo a non farsi comandare dal mostro.

Ma per raggiungere tutto questo non serve soltanto l’aiuto medico, ma una famiglia e degli amici (quando essi ci sono) il cui sostegno non sia pretenzioso. Che non abbiano dunque la presunzione di aver capito la malattia, di aver capito come interagire con essa, di avere la soluzione al problema. È difficile avere – tanto quanto convivere con chi ha – una malattia mentale. Servono pazienza, fiducia, dedizione, calma. Amore. Amore incondizionato. Garantite a vostro figlio, a vostro marito, a vostra madre – a chiunque vogliate bene e che debba lottare con il mostro – un sostegno che sia innanzitutto affettivo, senza pensare di avere soluzioni immediate o scontate. Spesso quelle soluzioni faticano a trovarle i medici. Non assumetevi quel gravoso compito che, dopotutto, non vi spetta. Una madre, un partner, un amico devono soddisfare una sola richiesta nei confronti del malato, alcune volte la più difficile di tutte: esserci. Esserci sempre. Esserci nonostante. Esserci soprattutto quando ci sono delle ricadute. La presenza è l’atto più sincero e puro che si possa offrire a chi soffre dinanzi a noi.

La battaglia contro la malattia mentale è unica. Nel senso che ognuno la affronta, la vive, la sostiene o meno, in modo del tutto personale. Spesso anche in silenzio. Spesso all’oscuro del mondo al di fuori. “Non c’è tormento peggiore di portarsi dentro la propria storia mai raccontata”, ha detto Maya Angelou. E in effetti quanti di noi che convivono con una depressione latente, ad esempio, soffrono perché sentono di non poterne parlare a nessuno? Di non avere nessuno con il quale confidarsi e, magari, di tanto in tanto sfogarsi? Credetemi: la malattia mentale uccide molto di più nella morsa del buio del silenzio che alla luce del dialogo, del confronto, della liberazione che si prova dicendo chiaramente e senza timore: ho una malattia mentale. Ogni giorno è una lotta e ogni giorno ci si prova un po’ di più.

Nel 2021 ero clinicamente ansioso e depresso. Non ero più capace di affrontare lucidamente alcuna azione della mia vita. Respirare mi procurava dolori al petto. Piangere non mi liberava neanche un po’ dall’intimo dolore che portavo dentro. Vomitavo quasi ogni giorno. Mi sentivo un involucro svuotato di esistenza e soffio vitale. Non ero figlio di Dio ma il figlio illegittimo di Satana. O almeno così mi sentivo. Per un periodo pensai che sarebbe stato così per tutto il resto della mia esistenza. Un esistenza malata, cancerogena.

Sono stati mesi nei quali ho avuto talmente tanta paura di soccombere definitivamente alla malattia mentale – quindi di morire a causa di essa -, come soltanto dopo un ricovero psichiatrico mi era capitato, che mi sono detto: devo fidarmi dei medici che fino ad ora mi hanno fatto paura. O loro ci sono, o io svanisco. Senza di loro, non sarebbe più esistito Tiziano.

Mai prima mi dissi – credendoci davvero – le seguenti parole: ho bisogno di aiuto perché da solo non sono in grado di farcela.

Quella concreta paura di morire – di soccombere al nulla -, unita a quel disperato grido d’aiuto, mi hanno tirato fuori, in un percorso che è durato tre anni e che tutt’ora continua, da una condizione emozionale e di pensiero melmosa, nella quale stavo affondando sempre più. E allora capii che solo affidandosi a chi ha studiato la forma e la struttura clinica del male mentale si può imparare, lentamente, a stare meglio.

Soltanto dicendosi chiaramente malati – soltanto mostrandosi nudi sul palcoscenico – senza più alcun timore o pudore, si può, con il tempo e con la fatica, vincere il male di vivere.

Ma nonostante i sostegni sociali e psicologici a chi ha di questi problemi sono esponenzialmente maggiori rispetto al passato – e di cui io usufruisco e verso i quali ho un enorme debito di gratitudine – c’è ancora molto da, e che si può fare. E allora abbiamo bisogno di più giornalisti che ne parlano. Abbiamo bisogno di più programmi televisivi e radiofonici che ne discutono. Abbiamo bisogno di più pubblicità che ne espone le dinamiche e incentiva a chiedere aiuto. Ma quanti giornalisti, quanti programmi televisivi e radiofonici, quanta pubblicità vediamo che tratta, seriamente, il tema della malattia mentale? Pochissima. Il nulla del nulla in confronto alla necessità della popolazione. Perché il problema psicologico di un cittadino è, anche, un problema sociale e perfino culturale di ognuno di noi.

Si vince la (propria) malattia mentale con i medici, ma riusciremo a debellarla dalla società (forse sì, questo è un pensiero fin troppo utopico) quando essa diventerà un ampio, diffuso e interessato tema di discussione fra i cittadini. Quando non ci saranno più sorrisi maliziosi. Quando la parola “schizofrenia” non farà più paura né terrore. Quando l’ansia clinica riceverà – sempre e incondizionatamente – lo stesso sostegno terapeutico, lo stesso rispetto sociale, di chi ha un mal di schiena.

Ma per fare questo, di nuovo, bisogna essere «nudi sul palcoscenico». Ossia non aver paura a pronunciare le parole che fanno più paura (e quanto tempo mi ci è voluto per arrivarci!). Dunque, il voler e saper garantire benessere a tutti, indipendentemente che il loro male venga da uno squilibrio nel cervello o da un altro organo del corpo.

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Foto di Dustin Belt su Unsplash

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