La mia psichiatra, la mia psicologa ed io: una squadra vincente
«Lo sa dottoressa perché le sono grato?»
«Mi racconti, sono qui per questo».
«Esatto: perché lei è qui per questo. Perché prima di incontrarla ero destinato a morire della morte peggiore: quella di coloro che muoiono senza aver mai vissuto. Lontani dal mondo. Peggio ancora: lontani da sé stessi. In un buio di emozioni. In una camicia di forza di interazioni. Lo sa, vero? Morire di suicidio è l’atto di coloro che nascono destinati a fuggire da una vita – da tutto e da ogni cosa – che ha il frastuono del dolore anziché dell’integrazione, non riuscendo a ottenere l’unica cosa che chiedono all’esistenza: un po’ di pace, un po’ d’amore, un po’ di noi stessi in queste lande deserte. Io ero così. Si ricorda cosa mi disse quando venni da lei a chiederle aiuto?»
«Me lo ricordi».
«Mi disse che io avevo del potenziale. Che c’era margine per lavorare con me. Io non ci credevo. Ero paralizzato dall’ansia. Avevo amato troppo. Avevo anche amato male. Forse, per parafrasare Hemingway, significa che non avevo amato affatto».
«E ora non si sente più così, giusto?»
«No. E questo è merito suo. Lei che ha creduto in me quando io credevo di essere satana».
«Non dica questo».
«Mi lasci concludere. Pensavo di essere satana, e lei è stata la prima persona – forse soltanto per dovere, non mi importa, mi lasci sognare – che in me non ha visto il figlio o il paziente di qualcuno. Lei ha visto un essere umano».
«Mi gratifica molto sentirglielo dire».
«Io sono gratificato dal lavoro che abbiamo svolto. Che stiamo svolgendo. Un po’ di tempo fa lei mi ha sorriso e mi ha detto: ‘Complimenti a noi’. Quant’era bello quel sorriso. Era anche il mio nei confronti dell’alba di un uomo che sempre si abituò a vedere il tramonto. Ma ora non ho più paura. Non ho paura di andare a Bergamo con l’istinto di vomitare salendo in macchina. Non ho paura di amare e di soffrire per amore, perché tutto ciò che nasce dal dolore può essere mattoncino di progresso, stupore. Non ho più paura di credere che anch’io ho un posto in questo mondo anche se so di non averlo ancora trovato. Forse non lo troverò mai. Ma so che c’è. La ricerca è più importante di una medaglia al petto. E allora andrò alla ricerca del Graal del mio ventre, il Vello d’Oro della mia felicità e risorgerò come una fenice».
«Mi mancavano le sue citazioni letterarie».
«A me mancava, prima di incontrarla, qualcuno che mi dedicasse un’ora, cinque minuti, un sorriso, il credere nell’uomo prima ancora che nel divino».
«La ringrazio. Le sue parole danno un senso al mio lavoro. E allora continuiamo così, non trova?»
«Io voglio essere libero. Capisce cosa intendo?».
«Certo. Me lo dice sempre. È un ragionamento molto razionale».
«Perché nella libertà c’è il seme del progresso. E tutto il progresso viene dal cambiamento. Io non sarei cambiato senza di lei. Ero statico. Paralizzato. Morto asfissiato dai gas di scarico del rancore, che non salgono al cielo, ma bruciano dentro, fino a corrodere l’uomo, fino ad annullarlo. E il rancore a un certo punto lo si deve vomitare fuori, e lo si fa con l’odio. Sa come cantava Battiato?»
«Me lo dica».
«Il diavolo è mancino, è subdolo, e suona il violino».
«Lei non crede più di essere figlio del diavolo, oggi, spero».
«No, ma c’è stato un tempo – un lungo tempo di universale condanna al fuoco – dove mi ero esposto al cornicione, gambe all’aria, tiravo fuori una mano, due dita. Annusavo l’aria impregnata di chimico veleno. Volevo buttarmi. Mi piaceva pensare: chissà cosa si prova, a morire. Si dovrà pur provare qualcosa».
«E’ un bene che lei non abbia più di questi pensieri».
«No, perché grazie a lei ora penso: chissà cosa si prova, invece, a vivere».
«E allora viviamo ancora un po’, non trova?»
«Viviamo ancora un po’. Un’ultima citazione, le va?»
«Mi dica pure, è un piacere ascoltarla».
«Viviamo ancora un po’. Ma stavolta, come canta Ivano Fossati, «suonando il rock».
Nota dell’autore: questo racconto autobiografico è dedicato a chi ha premura nei confronti del dolore. È dedicato alla mia psichiatra e alla mia psicologa.
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Foto di Ümit Bulut su Unsplash