L’arte meditativa della preghiera musulmana
Non ho mai pensato, in trentadue anni di vita, che sarei mai stato un uomo di fede. Pensavo di “credere” in Dio, ma soltanto per un bisogno personale (figuriamoci parlare di spiritualità) per accettare meglio il mio sapermi mortale. Ma non ho mai avuto un’autentica consapevolezza religiosa, una fede radicata nel quotidiano né la capacità o la voglia o il tempo di viverla affinché potesse farmi stare meglio – come invece poi è successo nel momento in cui ho scoperto l’Islam. Mi è capitato, anni addietro, di pregare, come pregano un po’ tutti i cristiani più o meno praticanti, più o meno fedeli: inginocchiandosi davanti al letto, pronunciando parole un po’ timorose, un po’ balbuzienti, verso un Dio che non siamo sicuri che ci sia né che ci ascolti né che accolga con amore e premura la nostra invocazione. L’ho fatto per non più di una manciata di volte in tutta la mia vita, e solamente in momenti di profonda crisi emotiva: se avevo paura di perdere mia madre, se arrivavano delle diagnosi negative o delle notizie brutte e sconfortanti. Ma non è questo il modo migliore per ingannare Dio? Ossia ricordandoci di Lui solamente quando fa comodo a noi? Una “fede” intermittente, lampeggiante, né sul rosso né sul verde, ma un costante arancione, che forse non ci spinge indietro, ma nemmeno ci lancia in avanti nel nostro percorso spirituale.
Poi ho scoperto l’Islam e ho trovato in questa religione un avvolgente, profondo, intenso, etereo ed eterno stato di amore. Una religione che – come tutte le religioni – per essere compresa va studiata e colta nei dettagli sottostanti il significato più superficiale e appariscente del Testo sacro. Soprattutto mi sono avvicinato all’Islam attraverso il Sufismo, che nient’altro è se non il misticismo islamico, la spiritualità più genuina, autentica e primigenia di questa fede.
All’inizio, affascinato dall’Islam, mi domandavo se sarei mai stato in grado di pregare, e di farlo cinque volte al giorno. Viviamo in una società così frenetica, di accelerazione in accelerazione continua, tentiamo in tutti i modi di scalare vette sempre più alte, tanto da dimenticarci quanto un po’ di sana e autentica spiritualità può non solo alleggerire il nostro animo, dargli una direzione, ma pacificarlo, renderlo più leggero. Farci sentire, in sostanza, (ben) guidati. E se andiamo ad analizzare la Salat (la preghiera rituale islamica) vediamo che non richiede più di cinque, dieci minuti per volta. Circa mezz’ora totale della nostra giornata, dal mattino alla sera. Sembriamo non avere mai tempo per niente e allo stesso tempo voler aver tempo per tutto – per tutto quello che ci fa comodo, quanto meno. Ma sembriamo non essere disposti a ritagliarci pochissimi minuti per cercare di trovare, ritrovare e dialogare con Dio e la nostra anima. Forse, abbiamo soltanto bisogno di riequilibrare le nostre priorità esistenziali.
In principio, studiando l’Islam e il Sufismo, mentivo a me stesso. Mi facevo domande e mi davo risposte come: ma dai, forse si può essere musulmani senza pregare. Forse ci sono delle “esenzioni” (come se la fede fosse un ticket sanitario). Forse non tutti i musulmani pregano cinque volte al dì (e qui è senza dubbio vero, ma guardiamo innanzi a noi stessi, mi verrebbe da dire). Non ero ancora in grado di capire (e forse di accettare) quanto pregare – e la preghiera nell’Islam ancor di più – sia non soltanto un innalzamento spirituale e dell’anima, ma di ogni atomo del nostro corpo. Noi diventiamo parte del Cosmo, (ri)diventiamo parte dell’Unità divina. E questo, credetemi, garantisce al proprio spirito il più genuino e materno amore. Noi siamo abbracciati. Noi siamo protetti. Siamo ascoltati e siamo riappacificati dalle sofferenze umane e quotidiane che, anzi, diventano uno stimolo per perseguire una ulteriore (e migliore) formazione spirituale, emotiva, caratteriale. Scopo primario dell’Islam più mistico è purificare il cuore e l’anima prima del definitivo incontro con Allah. E in tutto ciò la Salat è di enorme aiuto.
Hermann Hesse, premio Nobel per la Letteratura, fu uno degli scrittori più spirituali del ‘900. Navigò soprattutto nelle fedi dell’Estremo Oriente. Scrisse che colui che crede in Dio e prega, lo fa nella «massima concentrazione delle forze interiori, come volontà tesa al bene, al risveglio». La preghiera, infatti, dovrebbe essere al contempo un innalzamento emotivo della nostra persona, e un innalzamento dell’anima verso lidi celesti. Questo Hesse lo capiva benissimo, così come benissimo lo insegna la spiritualità orientale. Non solo preghiamo come forma di devozione a Dio, o per chiedere ad Esso aiuto, ma per «esaminare il nostro cuore, a combattere la pigrizia».
Perché in effetti, tornando alla Salat islamica, essa richiede sacrificio. Richiede la concessione di tempo quotidiano dove nulla esiste se non Allah. Dove dovremmo (almeno idealmente) silenziare dubbi, pensieri, timori, e raggiungere una condizione spirituale che – nel momento della prosternazione – ci può apparire, anche solo per quell’istante, eterna.
La preghiera musulmana è, a modo suo, un’arte meditativa. In quanto non solo si prega Dio, ma lo si fa prima tenendo le mani incrociate, in forma di rispetto, poi ci si inchina, poi ci si prostra, e infine si ripete le preghiera, in base agli orari, due, tre o quattro volte. Ci si sente purificati, come se il nostro cuore fosse stato lavato da acqua limpida di ruscelli di montagna. E’ anche un atto meditativo perché richiede concentrazione, perché richiede abbandono nell’energia divina, perché muovendo il proprio corpo, si sente con ancor più vitalità la forza della preghiera su di sé. In quei dieci minuti ci sembra quasi di abbandonare i dolorosi anfratti del nostro corpo per cogliere (ma senza sradicare) la nostra anima. Dialogando con essa che, in quanto manifestazione della volontà divina, risulta essere un vero e proprio “dialogo” con Dio. Se nel Cristianesimo c’è la confessione, nell’Islam c’è, più semplicemente, il fedele che, inginocchiandosi verso la Mecca, cerca un intimo colloquio con Allah.
Nasce quindi, con il tempo, il desiderio di pregare sempre di più. Di abbandonarsi alla preghiera, lasciandosi andare ai flutti di questo grande fiume che conduce all’ancor più grande oceano divino. Appare, a un certo punto, impossibile vivere al di fuori della preghiera. Una mancata preghiera è come un doppio, triplo, quadruplo battito mancato del cuore. Diventa una necessità spirituale tanto quanto emotiva.
C’è poi la questione inerente alle abluzioni. Non c’è Salat senza prima la purificazione del corpo, che comprende lavaggio delle braccia fino ai gomiti, piedi, fronte. Ed è questo un passaggio importante e non meno fondamentale dell’invocazione vera e propria. Se il nostro corpo non è pulito e purificato, non lo potrà essere nemmeno la preghiera che andremo a recitare. L’abluzione diventa quindi un atto ritualistico e, a modo suo, non solo meditativo, ma anche piacevole. Rinvigorente.
Ricordo le parole dell’Imam Shamil, il quale guidò la resistenza contro l’invasione russa nel Caucaso nell’800. Disse: «Era indispensabile, prima di tutto, eseguire l’abluzione». Non era importante la «stanchezza» o la «scarsa inclinazione»: purificarsi per Allah, sentendosi puri e limpidi in Sua presenza, era «necessario come il cibo quotidiano».
Ecco perché come una giusta, lenta e cadenzata recitazione della preghiera, è altrettanto fondamentale fare un’abluzione che sia precisa, attenta e curata. E’ come dedicare attenzione al movimento del proprio respiro. E’ come illuminare il proprio corpo di splendore divino. E sì: in tutto ciò c’è molto di meditativo.
Negli ultimi tre versetti della Sura 16, Allah annuncia al Profeta Muhammad (e quindi ai fedeli tutti): «Sappiamo che il tuo petto è angustiato per ciò che essi dicono», ossia che il cuore umano può riempirsi d’amore e di gioia come di dolore, rancore e sofferenza. Poi, continua: «Glorifica dunque il Signore con la Sua lode e sii di quelli che si prosternano, e adora il Signore sino a che ti verrà la certezza».
Quest’ultima frase è significativa. Può avere molteplici interpretazioni, ma la più plausibile è che Dio sa quanto faticoso può essere pregare cinque volte al giorno – quanto può essere impegnativa la rammemorazione dell’amore e della gloria divina. Ci dice dunque: «adora il Signore sino a che ti verrà la certezza», ossia non rinunciare, sii costante, e la preghiera diverrà così un rituale quotidiano al quale tu stesso non potrai rinunciare, consapevole del bene che ti farà.
Possiamo trovare un riscontro in tutto ciò anche nella meditazione vera e propria (e non solo nell’atto meditativo della preghiera musulmana). Chiunque abbia provato seriamente a meditare, sa quanto i primi tempi sia faticoso – quasi nevrotico – starsene anche solo cinque minuti seduti, in silenzio, a far defluire decine di pensieri uno dopo l’altro che ci assillano. E’ una condizione fastidiosa in quanto ne siamo estranei, disabituati. Ma perseverando, ne vedremo con il tempo il benessere spirituale e fisico sul nostro corpo, sulla nostra mente, sull’utilizzo stesso che faremo del nostro respiro.
Quando Allah dice che il petto del Profeta (e quindi i nostri) sono «angustiati» lo fa poiché scopo finale dell’Islam non è la lotta, la divisione o lo scontro (come taluni vogliono farci credere), ma piuttosto la purificazione dai lati negativi e più torbidi del nostro carattere, della nostra interiorità, affinché ci possiamo preparare dignitosamente all’incontro con il divino. E’, d’altro canto, esattamente quello che insegna il Sufismo. E qualcosa che anche Franco Battiato – artista poliedrico e altamente spirituale – conosceva benissimo: scopo della vita non è scappare dalla morte, ma andarle incontro migliorandosi giorno dopo giorno. Per parafrasare le parole di Padre Guidalberto Bormolini: è come si muore, e si affronta l’atto della morte, a definire il modo in cui si è vissuto.
Scelgo di concludere con il versetto 76 della Sura 20, nel quale discende sul Profeta la promessa che verrà concesso l’Eden a coloro che credono e compiono opera buona – «ecco la ricompensa per colui che è puro». Qui con purezza non si intende solamente il credere nell’Islam (tutti coloro che credono nel Libro, nei suoi profeti e nelle sue rivelazioni, dice il Corano, avranno in dono il Paradiso: quindi anche, per esempio, i Cristiani e gli Ebrei). Ci si riferisce piuttosto alla purezza che l’uomo deve raggiungere all’interno di sé, nel proprio carattere, nei propri comportamenti, nel proprio e più intimo pensiero, al fine di essere non soltanto un fedele migliore, ma un essere umano migliore dinanzi a Dio.
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Foto di Imad Alassiry su Unsplash