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Auschwitz: un enorme cimitero

Il poeta Vittorio Sereni, nel 1942, in pieno tempo di guerra, ha raccontato dei treni – o meglio, i carri bestiame – sui quali venivano deportati gli ebrei e i prigionieri ai vari campi di concentramento in Europa. Ma erano gli occhi di quei prigionieri a colpirlo più di ogni altra cosa. Nient’altro che sguardi «umani» che fissavano lui e coloro che ancora potevano godere della libertà con «un’intensità micidiale». La cosa più difficile, sottolinea, era sostenere quegli sguardi, pieni di dolore, imploranti, che parlavano di fame e paura. E allora, continua Sereni, tutti noi «ostentiamo indifferenza».

Mi hanno colpito moltissimo queste parole. L’ho trovata un’immagine estremamente vivida di ciò che erano i rastrellamenti, la sofferenza disumana e inumana delle deportazioni. Ma, soprattutto, di come certe volte noi scegliamo di non vedere pur di non partecipare a quella sofferenza, personale tanto quanto collettiva. E qui arriviamo ad Auschwitz.

Nella primavera del 2023 sono stato in viaggio a Cracovia, e ne ho approfittato per visitare il famigerato campo di sterminio più conosciuto dal pubblico internazionale. Un campo che rappresenta quanto il male possa essere, per dirla con Hannah Arendt, «banale», come degli uomini apparentemente comuni, con famiglie, figli, amici, decidano consapevolmente di uccidere milioni di uomini, donne e bambini, senza considerarli come esseri umani, ma piuttosto come pulci, zecche, vermi, insetti, dei gusci vuoti senz’anima da soffocare con del gas.

La visita ad Auschwitz mi ha ricordato quanto un “uomo” possa arrivare a disumanizzare un suo simile, nel nome dell’ideologia della razza. Quanto la morte possa diventare una catena di montaggio e una routine che prende e porta con sé migliaia di anime al giorno.

Uno dei luoghi più struggenti del campo di sterminio polacco è una stanza, un lungo corridoio, sulle cui pareti, a destra e a sinistra, sono appesi centinaia di quadri; primi piani dei prigionieri che qui arrivarono e che qui, molto presto, trovarono la morte. E’ inevitabile soffermarsi a guardare i loro sguardi. Se ne coglie un senso di spaesamento e disorientamento, di paura, di dubbio (cosa ci sta per succedere?), alcune volte si può perfino riscontrare un’espressione di sfida, ma anche di innocenza perduta non appena varcati quei cancelli infernali. Sono sguardi profondi e allo stesso tempo vuoti, che parlano nel silenzio, che trafiggono come spade nello stomaco. Li si osserva e ci si chiede come sia stato possibile. Si vorrebbe chiedere loro perdono. Sembra quasi che, per riprendere Sereni, se noi, durante la visita a questo corridoio, abbassiamo il nostro sguardo, o lo distogliamo dal loro, siamo in qualche modo altrettanto colpevoli.

Loro, quasi un secolo dopo, sono lì a dirci, a implorarci: ricordate. Ricordateci.

Auschwitz è il nome che i tedeschi diedero alla cittadina polacca di Oswiecim.

Io scelsi di visitare questo luogo di dolore e di memoria con un tour guidato. Il viaggio da Cracovia dura poco più di un’ora; si passa attraverso l’aperta campagna polacca, si vedono alcuni piccoli villaggi, qualche caratteristico cottage fra i prati, e poi la strada che sembra condurci direttamente in bocca alla Storia.

Quando si sta per arrivare le sensazioni sono complesse, ambivalenti e contraddittorie. Immaginate un luogo, che è anche una cittadina dove vivono quarantamila persone, e dove, circa due minuti prima di arrivare davanti ai cancelli del campo (che ricordo, è suddiviso in Auschwitz I, e Auschwitz II, meglio conosciuto come Birkenau) si passa davanti a un McDonald. Qui la vita ha ripreso a tutti gli effetti, e questo incentiva nel visitatore un senso di impotenza e spaesamento. Ci si aspetterebbe di arrivare in un luogo vuoto, per dirla con Eliot, in una «terra desolata» senza vita, dove nemmeno l’erba possa crescere, dove la vita non possa mai prosperare, dove la pioggia cade acida da un cielo violaceo e violento. Invece è un luogo normalissimo, anche troppo, se non fosse, come ci ha detto la nostra guida mentre il pullman stava parcheggiando: «Rispetto, mi raccomando. Non vedrete lapidi, ma state a tutti gli effetti per entrare in un enorme cimitero».

L’infausta scritta all’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz I.

Quando arrivammo all’ingresso del campo, nella zona delle biglietterie, potei osservare grandi ammassi di persone; mi colpirono in particolare tanti ragazzi e ragazze, probabilmente qui con una scolaresca, che sembrava stessero andando a un parco divertimenti: urla e schiamazzi continui, spinte e cellulari in bella vista. Così pensai: è giusto tutto questo? Auschwitz, in qualche modo, è “proprietà” di tutti, della memoria storica di ognuno di noi. Questi adolescenti capiscono davvero dove si trovano, l’importanza di questo luogo e, se lo capiscono, perché non si comportano con più decoro? Furono immagini, per quanto mi riguarda, perfino fisicamente fastidiose. E di nuovo pensai: milioni di persone ogni anno fanno questa sorta di “pellegrinaggio” verso i campi di sterminio, attratti, in sostanza – perché così fu anche per me – dalla curiosità di ciò che qui è stato. L’ho trovata un’azione, in qualche modo, immorale. Un’immoralità che appartiene ad ognuno di noi – me incluso.

Quando arrivammo davanti al cancello con l’infausta scritta «Arbeit Macht Frei» (Il lavoro rende liberi) pensai: eccomi, sono qui. E’ qui che è successo. Lì, in quell’istante, riconobbi che lo sterminio fu reale: non lo leggevo più solo sui libri, non stavo guardando un documentario. Ero qui e quasi potevo sentire le urla di dolore e spaesamento dei prigionieri che di lì a poco sarebbero stati condotti alle camere a gas. Urla nel silenzio, perché quando si entra ufficialmente nel campo, questo è ciò che predomina e che crea in sé un fastidio interiore, sapendo i crimini che qui vennero perpetrati: il silenzio, ancor più che in un normale cimitero.

 Ebbi l’istinto di piangere, e poi di vomitare, ma allo stesso tempo era come se un impulso interno mi spingesse a proseguire, a voler vedere.

Gli edifici di Auschwitz, da fuori, non sembrano poi così tanto pericolosi, né lacrimare di milioni di lacrime, né sanguinare del sangue invisibile degli ebrei qui deportati. Può facilmente apparire come un complesso ospedaliero, o una struttura di detenzione, ma nulla farebbe pensare a un campo di sterminio. Fino a che non si entra dentro nei «block» e si comprendono i crimini che qui vennero commessi, con violenza e disumanità.

Stanze con migliaia di valigie – le stesse che venne concesso ai prigionieri di portare con sé, ma che a nulla servirono, né li salvarono dalle imminenti camere a gas. Stanze con decine di migliaia di scarpe; abbastanza sconvolgente osservare quelle in primo piano – scarpette da bambino. Sì perché i primi a morire furono proprio gli «inabili al lavoro», ossia donne e bambini, ai quali, dopo la morte per asfissia, venivano strappati i denti, tagliati i capelli, bruciati come sappiamo e, le loro ceneri, se ciò avveniva nel periodo invernale, cosparse per i sentieri di Auschwitz. La cenere umana usata come sale per non far scivolare i loro carcerieri, i gerarchi del mostro di Berlino. E poi ancora, stanze nelle quali vengono conservati quintali di capelli dei prigionieri. Li osservai e volli di nuovo piangere, e vomitare, ma soprattutto avere lì qualcuno con me da poter abbracciare, a cui stringere la mano, a cui poter dire: «hai visto anche tu quello che sto vedendo io? Ti prego stringimi forte e amami dell’amore che qui non ci fu».

Come è possibile che un “uomo” possa essere in grado di disumanizzare a tal punto un suo simile? Ma la risposta, sempre che ce ne sia una, sta proprio qui: probabilmente i nazisti erano uomini – cattivi certo, ma pur sempre uomini -, ma non ritenevano umani coloro che uccidevano come in una catena di montaggio. Non erano solo persone di una presunta diversa razza. No. Erano, per loro, offuscati dall’ideologia razzista, esseri immondi per il quale, nemmeno un bimbo piangente sul fianco della madre, tremante di freddo, meritava di vivere.

Poi arrivammo nella zona dei crematori, adiacente alle camere a gas. E anche qui tutto sembrò normale, quasi banale. Difficilissimo immaginare che qui, in poche decine di metri, hanno perso la vita decina di centinaia di migliaia di persone, bambini inclusi. La «banalità del male» di cui parlava Arendt non si riferiva solo ai gerarchi nazisti, ma anche ai campi di sterminio: più che reali macchine di morte, sembrano vecchi edifici in mattoni rossi che contengono uffici, o al massimo depositi. E’ questa consapevolezza che rende ancora più agghiacciante tutto ciò, come un vento freddo, anzi gelido, che ti percuote il corpo quando arrivi in questo posto.

Entrammo nella camera a gas. Fu questione di un minuto. I primi secondi non realizzai dove ci trovavamo. Forse, non volevo realizzarlo. Pensai a un bunker, a un laboratorio smantellato. Qualunque cosa, ma non a quello. I pavimenti e i muri erano macchiati, forse di umidità, o forse dell’antico vomito dei prigionieri pronti alla morte. Nel momento in cui capii dove ci trovavamo mi guardai intorno, ancora curioso – forse troppo curioso – e mi sentii schiacciare da quelle pareti basse e strette. Solo entrandovi – pur senza immaginare ciò che qui avvenne – ci si sente pervasi da una sensazione di profondo disagio psico-fisico. Il tuo corpo percepisce esattamente ciò che il tuo cervello può ancora faticare a comprendere e accettare.

Uscimmo dalla stanza e ci ritrovammo di fronte due forni crematori, e fui di nuovo colpito da una doppia sensazione che già in precedenza ho descritto: quella di una morbosa curiosità senza fine che mi ha fatto sentire per tutto il tempo colpevole, e l’idea che non era possibile che in quelle due piccole strutture in pietra e mattoni vennero bruciate circa un milione di persone. Ci si immagina edifici imponenti, qualcosa la cui grandezza possa spiegare l’egual grandezza dei crimini commessi.

L’ultima fermata davanti al “Cancello della morte”.

Ma non è così. E’ quanto apparentemente “normale” Auschwitz sia agli occhi innocenti di un visitatore, a rendere il campo di sterminio un luogo ancor più tragico, un vero e proprio cimitero di cui avere rispetto ad ogni passo. Oso quasi dire che, camminandovi, noi stiamo camminando «sul sangue invisibile dei prigionieri»: quel sangue che divenne cenere, che poi fu sparsa nei periodi invernali sui vari sentieri che conducono ai diversi edifici di morte qui presenti.

Dopo circa due ore di visita ad Auschwitz I, la guida ci ha condotto al campo II. Qui la mia impressione fu radicalmente opposta rispetto al primo campo. L’estensione di Birkenau è ampia, ma soprattutto dà un’immagine desolata di sé. Di molti edifici rimangono solo alcuni mattoni a richiamare la loro antica presenza, dopo che vennero bombardati con l’avvicinamento degli Alleati. Ma, se Auschiwtz da quasi un’idea di “pace” – se riusciamo ad escludere da questa impressione la nostra memoria su ciò che lì avvenne -, differentemente Birkenau è un luogo molto più tetro e oscuro.

I resti delle costruzioni del campo di sterminio di Birkenau.

Immediatamente dopo l’ingresso nel campo ci si trova dinanzi al famigerato «Ingresso della Morte» (Death Gate), che sicuramente avrete osservato in decine di fotografie dell’epoca. Era qui che facevano l’ultima fermata i treni – spesso carri bestiame in condizioni igieniche inumane. E’ qui che venivano fatti scendere i deportati, selezionati e divisi (in abili e inabili al lavoro) e, spesso, dopo neanche mezz’ora dal loro arrivo, condotti alla morte per avvelenamento.

Centinaia di migliaia di persone arrivarono qui trattate come animali da gabbia, anzi da scuoiamento. L’uomo qui smetteva di essere tale, e diveniva solo un mezzo per far valere il predominio di una razza (o meglio, di un’ideologia) su tutto ciò che si scostava da essa.

Entrammo quindi nelle famose baracche, dove dormivano i prigionieri, su letti che altro non erano che assi di legno, scomode e spigolose, ammassate e strette le une sulle altre. E’ facile immaginare il freddo, le malattie, la fame, che i condannati della terra qui erano tenuti a sopportare prima dell’inevitabile fine.

Le baracche di Birkenau.

Forse perché, quando arrivammo a Birkenau, iniziò a piovere, il cielo si fece cupo e livido, l’aria fredda e sferzante, però ho trovato questo campo molto più “impattante” per me. Nonostante ciò, si tratta di un’esperienza complessiva che, se farete, vi consiglio di preparare emotivamente in anticipo. Non sarà un’esperienza facile: vi porrete domande, vi sentirete sporchi, in qualche modo perfino sbagliati di far parte di un’umanità che ha concepito ed è stata in grado di fare questo.

Un luogo particolarmente toccante si trova esattamente in fondo al campo II, dove sono state installate una serie di targhe in più lingue (compreso l’italiano) che recitano le strazianti parole: «Grido di disperazione ed ammonimento all’umanità sia per sempre questo luogo dove i nazisti uccisero circa un milione e mezzo di uomini, donne e bambini, principalmente ebrei, da vari paesi d’Europa. Auschwitz – Birkenau 1940 – 1945».

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