Sindrome di Kallmann: una voce senza sesso
Per tutta la vita.
Come reagireste se vi venisse diagnosticata una malattia che dovrete curare per tutta la vita, e ciò vi viene annunciato quando non avete nemmeno diciotto anni?
Soffro, nello specifico, di due malattie, molto diverse fra loro, ma allo stesso tempo strettamente collegate. Di quello che è stato un disturbo psicotico, che può facilmente diventare una tra le più devastanti malattie mentali se non adeguatamente trattata, ora mutato in una diagnosi di «disturbo di personalità», e una malattia genetica rara: la Sindrome di Kallmann, ossia la ragione di questo testo.
Avevo circa sedici anni, e sembravo un bambino. Non intendo dire che avevo un aspetto minuto, poco cresciuto, un po’ gracile. Intendo dire esattamente che sembravo rimasto bloccato all’infanzia, come se avessi avuto otto, forse dieci anni, e nemmeno un bambino di dieci anni particolarmente in forma. Non ero per nulla robusto in base all’età che avevo, bensì molto fragile, una foglia d’autunno al vento. I lineamenti del mio viso erano morbidissimi, figuriamoci anche solo avere un accenno di barba. In quel periodo portavo anche i capelli lunghi, fin oltre le spalle, e questo non contribuiva a darmi un aspetto adeguato ai miei sedici anni. Inoltre ero basso, come se non avessi affrontato la fase della pubertà. Perché la Sindrome di Kallmann è proprio questo. Per non parlare della mia voce: così delicata, del tutto infantile, dai toni acuti, come un fischio alle orecchie di un cane. Una voce che si potrebbe definire “senza sesso”.
Fin da quando ero bambino mi resi conto di non essere in grado di percepire gli odori. Non è esatto dire che li sentissi alterati: non li sentivo affatto. Qualche rarissima volta, soprattutto se si trattava di odori molto forti e soprattutto fastidiosi, percepivo in modo molto leggero, quasi impercettibile, quel fastidio nel mio naso, alcune volte perfino nella mia bocca, ma non sapevo ricondurlo in alcun modo. Non ero in grado di riconoscere alcun tipo di odore.
Mio padre, con il quale non ho mai avuto un vero legame né tantomeno un rapporto di dialogo e confronto, poteva dirmi cose come: «Senti che bell’odore che ha questa rosa» e io fingevo di percepirlo, perché lo conoscevo e sapevo che se gli avessi risposto che non lo sentivo non mi avrebbe capito e mi avrebbe detto, con quel suo forte e aspro accento bergamasco, nient’altro che: «non capisci niente. Non sei buono a niente». Fu anche così che nacque il mio senso di insoddisfazione, di rincorsa a un’approvazione paterna che non avrei mai ottenuto.
Dunque per anni tenni nascosta questa patologia (anche se io non la consideravo nemmeno come tale) a tutti – ai miei genitori e al mondo esterno. Solo crescendo lo accennai alcune volte a mia madre, in modo piuttosto disinteressato. Una sorta di: ho questo “problema”, sai, ma non mi dà mica fastidio, non c’è di che preoccuparsi. E lo pensavo veramente. Dopotutto non sentire gli odori non condizionava in modo predominante – e spesso non la condizionava affatto – la mia quotidianità. E come feci troppo spesso crescendo – sbagliando – tenni tutto per me finché, inevitabilmente, le cose presero una direzione fuori dal mio controllo.
Quando ormai ero adolescente incominciai a fare diversi esami. Andai da diversi dottori, feci esami del sangue uno dopo l’altro, feci visite in ospedali specialistici milanesi, corsi di qua e di là per lunghi e interminabili mesi per cercare di capire esattamente perché, ormai vicinissimo alla maggiore età, sembrassi un bambino (nel viso, nella mia (inesistente) muscolatura, nel tono di voce, tanto quanto nel mancato sviluppo delle mie parti sessuali).
Mi venne diagnosticato l’ipogonadismo, ossia una condizione clinica che comporta una forte mancanza o inesistente produzione di testosterone. E dunque la mancata così come fondamentale fase della pubertà nel paziente. Successivamente mi venne diagnosticata la malattia vera e propria, ossia la sopraccitata Sindrome di Kallmann. Una malattia genetica rara (circa 1 su 8.000 nei maschi, mentre circa 1 su 40.000 nelle femmine) che unisce per l’appunto l’ipogonadismo alla perdita o mancanza totale dell’olfatto, il tutto mescolato a un aspetto che per molto tempo nei miei vent’anni decisi di negare, perché mi faceva troppo soffrire: l’infertilità.
E’ difficile accettare tutto questo. E’ difficile accettarlo di colpo. Ed è difficile accettare un corpo che non riesce a riconoscere sé stesso. Era come se fossi il nemico di me stesso. Nessuno poteva annientarmi, perché stavo già facendo tutto io. Ma almeno si incominciavano a capire alcune dinamiche della mia vita. Ecco che i pezzi del puzzle stavano incominciando ad apparire un po’ più coesi.
Quel periodo, per me, fu molto difficile, specialmente da un punto di vista emotivo. Per tutta la mia giovinezza (e tutt’ora nell’età adulta) ho combattuto con stati d’animo ansiosi, per non citare malattie ben più debilitanti come la depressione, così come un generale senso di disagio corporeo. Non mi sentivo in pace. Non mi sentivo bene nel mio corpo. Mi sentivo frustrato quando alle scuole medie i ragazzi mi prendevano in giro, sentendosi legittimati a bullizzare il mio corpo. E crebbi inesorabilmente con questo senso di inferiorità che però per molto tempo non fui in grado di motivare.
Perché sono così? Non mi piaccio. E quando non ti piaci, inizi a criticarti, e quando lo fai un po’ troppo spesso, iniziai anche a disprezzarti, e quando ti disprezzi, smetti di prenderti cura di te stesso – fisicamente tanto quanto mentalmente.
Quando incominciai a fare visite mediche in continuazione il mio senso di disagio si incentivò a dismisura. Ero imbarazzato dal fatto che i medici specialistici dovessero “visionare” le mie parti intime per poter capire cosa non funzionasse nel mio corpo, e darmi così una diagnosi e una cura. Alcune volte, crescendo, pensai di rinunciare a tutto – visite, cure, controlli mensili – pur di avere una parvenza di normalità nella mia vita. Mi sentivo un po’ in un limbo. Ero un bambino che non stava crescendo anche se la mia età diceva il contrario. Un bambino un po’ cresciutello il cui corpo non collaborava come avrebbe dovuto. E in tutto ciò io avrei semplicemente voluto essere un normalissimo giovane adulto. Qualcuno senza una, o più, patologie cliniche.
Ma in fondo va bene così. Ho imparato, dopo quasi quindici anni che mi è stata diagnosticata la Sindrome di Kallmann, e dopo quasi dieci che mi è stata diagnosticata la psicosi (come detto, poi convertita in “Disturbo di personalità”) a conviverci, ad accettarle come parte di me e della mia quotidianità. Tutti abbiamo i nostri demoni: questi sono i miei. Credo fermamente che sia come scegli di affrontare il destino che conta, e non ciò che la vita ti mette di fronte. Il movimento del destino deriva da una diretta azione da parte nostra.
Iniziai a curare la mia malattia attorno ai sedici anni, immediatamente dopo che mi venne diagnosticata. Cambiai varie terapie fino a trovare quella definitiva e attuale. La prima di queste mi responsabilizzò velocemente. Tutte le sere, prima di andare a dormire, dovevo iniettarmi, nella pancia o nel braccio, in completa autonomia, una piccola fialetta di testosterone. Andai avanti così per diversi mesi, per più di un anno. E quando sei un adolescente vorresti soltanto essere spensierato, pensare con leggerezza alla vita, semplicemente non avere grandi responsabilità – quelle, dopotutto, lasciamole all’età adulta. Vorresti partire per un viaggio senza preoccuparti di portare con te delle fiale di testosterone. Vorresti addormentarti liberamente senza la paura di dimenticarti di dover fare un’iniezione. Con me non è mai stato così. Io non ho mai avuto né provato quella leggerezza che ogni adolescente si meriterebbe. Mi ci è voluto del tempo, ma alla fine l’ho accettato. O quanto meno sto imparando ad accettarlo: non con poca fatica, non con pochi pianti. Credo di essere una persona migliore grazie a tutto ciò che mi è capitato. Non ho avuto una vita facile in questi primi tre decenni, ma sto imparando a vivere una vita migliore rispetto a quella che ho sempre pensato – e che mi hanno sempre fatto pensare – erroneamente, di meritarmi.
Lo scopo della terapia ormonale è dunque, in primo luogo, far avvenire, in modo “forzato”, la pubertà nel paziente, e successivamente mantenere un adeguato livello di testosterone nel sangue nel corso del suo sviluppo. Attualmente assumo una fiala di testosterone ogni tre mesi e mezzo circa (particolarmente dolorosa, perché ha una consistenza molto oleosa, e quando entra nel muscolo causa dei fortissimi e fastidiosissimi spasmi, e lascia la parte interessata molto indolenzita per diversi giorni). Devo fare esami del sangue e visite mediche ogni tre o sei mesi, e così dovrò continuare a fare fin quando vivrò. Il tutto pur di avere una vita, in qualche modo, più sana, più stabile, e prospettive future migliori di quanto altrimenti non sarebbe.
E’ impossibile non pensare a quali possano essere le conseguenze fisiche di assumere una terapia ormonale a lungo termine (così come, all’opposto, dell’assumere un antipsicotico per molto tempo). Se ci si informa brevemente, si scopre di poter rischiare di avere problemi ai reni, al fegato, al cuore, ma anche effetti collaterali meno drammatici, ma non per questo meno debilitanti: dolori muscolari, emicranie… Non è raro che abbia mal di testa, o dolori alle ginocchia, e questo succedeva già prima che iniziassi la terapia.
Non sono mai stato un bambino particolarmente lamentoso, anzi, se possibile, ove possibile, tenevo e tengo tutto per me. Quelle poche volte che nella mia infanzia o adolescenza raccontavo ai miei genitori che sentivo un po’ troppi dolori articolari, mi rispondevano, apparentemente disinteressati: muoviti, datti da fare e vedrai che ti passa. Ma non mi passavano. Anzi, spesso peggioravano.
Solo oggi mi rendo conto che tutto era, presumibilmente, collegato e interconnesso. Le mie difficoltà emotive divennero psicosi; le mie difficoltà fisiche trovarono radice in una malattia genetica rara; e i miei disturbi mentali (qualunque essi fossero) e la Sindrome di Kallmann, infine, si unirono, lasciandomi sfinito a combattere contro una mente e un corpo, assieme, che però non funzionavano tanto bene fra di loro. Insomma, era come se il mio organismo, in toto, fosse inceppato. Una cosa non cooperava con qualcos’altro. E quanti anni ho passato, fra dolori fisici e mentali, in preda a violente crisi d’ansia, vittima di ossa che talvolta mi sembrava si sbriciolassero dentro di me talmente erano fragili, cercando di capire cosa non andasse in me.
Solo mia madre, con il tempo, con l’arrivo delle diagnosi, riuscì a riconoscere effettivamente le mie battaglie, perché, dopotutto, erano anche le sue. La Sindrome di Kallmann mi è stata trasmessa da lei, e prima ancora, presumibilmente, l’ha avuta mio nonno Angelo. In effetti, ripensandoci ora, tutti e tre siamo sempre stati persone di costituzione molto magra – mingherlina sarebbe più corretto dire -, facilmente propensi ad ammalarci o comunque ad avere problemi fisici. E tutti e tre abbiamo sempre affrontato ciò, oserei dire, con una mentalità piuttosto stoica, resiliente. Mia madre ha poco più di sessant’anni, ma ormai da diversi decenni ha un’ossatura totalmente “scomposta”: le dita delle mani ingrossate e storte, gravi problemi alla schiena, e come me, forti dolori alle ginocchia che le precludono una camminata fluida e regolare, come conseguenza dell’osteoporosi. Mi è dunque inevitabile pensare a quale sarà il mio futuro.
Talvolta ho pianto pensando alle mie malattie, pensando a cosa mi aspetterà crescendo. Ma credo fermamente che la vita che ci viene concessa non è mai così insostenibile, così impossibile da vivere più di quanto siano resistenti le nostre capacità, interiori o esteriori, per poterla affrontare con forza e coraggio. La forza e il coraggio, innanzitutto, di volere bene a se stessi nonostante le malattie, nonostante siamo così dannatamente imperfetti. La vita è un percorso di adattamento. Più noi saremo in grado di adattarci, più riusciremo ad essere felici – sì, felici – anche nelle più impegnative difficoltà quotidiane.
Dovrò curare entrambe le malattie per la tutta la vita – si ritorna lì. Ogni volta che ci penso soffro, il mio cuore ha un sussulto, i miei occhi diventano liquidi. Sarebbe strano il contrario. Ma ci tengo a dire che sono fortunato – molto. Perché le malattie mi sono state diagnosticate, presto e in tempo, e non solo posso curarle, ma posso, in primo luogo, capirle, scriverne, raccontarne. E questo non solo mi dà forza e coraggio, ma mi dà gioia. La gioia, innanzitutto, di essere vivo, e questo già di per sé dovrebbe essere abbastanza.
Hey tu, so che sei lì dentro, so che ci sarai sempre, ma ho smesso di avere paura di te. Stringiamoci la mano e andiamo avanti – insieme.
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